Già nel Basso Medioevo era un importante centro di produzione e commercio del tessile, ma è nel XV secolo che Chieri lega la sua prosperità industriale a due parole chiave: il fustagno ed il gualdo.
Conosciuto dagli Egizi e dai Britanni, il gualdo o gialdo, il cui nome scientifico è Isatis tinctoria, è una delle cosiddette “piante da blu”, usata per tingere i tessuti ma anche da artisti come Piero della Francesca e Luca della Robbia. Furono i catàri provenienti dai Balcani, intorno al 1144, a portare nel chierese la coltivazione del gualdo. Le foglie venivano fatte essiccare e macinate con grandi ‘mole a gualdo’ in modo da ottenere una poltiglia con cui confezionare dei panetti sferici che in lingua occitana si chiamavano cocanha (da cui l’espressione Paese della cuccagna!) e che immerse in acqua bollente davano origine a tutte le sfumature del blu, dall’azzurro alle tonalità più intense. Con questo processo veniva tinto il fustagno, un tessuto resistente adatto per confezionare abiti da lavoro, che è l’antesignano del blue jeans (Chieri ne contende la progenitura con le altre due città del ‘triangolo blu’, ovvero Genova e Nîmes). La produzione locale si sviluppò soprattutto tra la seconda metà del 1300 e gli inizi del ‘400, grazie all’opera di maestri fustanieri di origine milanese attivi nel quartiere del Vajro, vero polo dell’attività tessile. Nel 1482 si costituì l’Università del Fustagno, la corporazione professionale dei fabbricanti e commercianti di tessuti, che attraverso gli Statuti dell’Arte regolava l’attività delle tessiture cittadine. Chieri mantenne fino agli inizi del ‘700 il primato di unico centro manifatturiero piemontese specializzato nella lavorazione di cotoni greggi e filati e da qui si diffuse in tutto il Piemonte, conquistando il favore degli ambienti signorili, il celebre ricamo “bandera”. Nel Novecento la città continuò a ricoprire un ruolo importante nel campo del tessile grazie all’innovazione delle lavorazioni e dei materiali, e qui si affermarono importanti aziende come il Cotonificio Tabasso, la Passamaneria Luigi Gamba, la Tessitura Giuseppe Gallina, la Manifattura Fratelli Fasano o lo Studio Serra e Carli.
Ma il primo opificio moderno di Chieri fu opera dell’imprenditore David Levi, che nell’Ottocento arrivò ad occupare oltre 700 operai. Aveva sede nell’antico convento quattrocentesco di Santa Chiara, che dal 1997, grazie all’iniziativa dell’imprenditore, ricercatore e collezionista Armando Brunetti, ospita il Museo del Tessile e gli uffici della Fondazione Chierese per il Tessile
Il Museo custodisce un’importante collezione di oltre 3.000 pezzi che raccontano la storia del tessile dal Medioevo ai nostri giorni, tra attrezzi per la filatura delle fibre naturali, per la tintura dei filati e delle pezze e per la sbiancatura dei tessuti, strumenti di misurazione, orditoi orizzontali e a giostra, telai di varie epoche perfettamente funzionanti (i più antichi risalenti al XVI secolo), e poi passamanerie, campionari di tessuti e filati, bozzetti, disegni tecnici e messe in carta e una collezione di oltre 200 figurini di moda, realizzati tra gli anni Trenta e i Cinquanta del Novecento. Nel Museo c’è anche un piccolo ma significativo Orto Botanico del Tessile, con una trentina di differenti specie di piante sia tessili sia tintorie, tra le quali ortica, canapa, lino, cotone, bambù, zafferano, camomilla, ginestra minore, robbia domestica e, ovviamente, gualdo.
Parte della collezione del Museo è collocata all’Imbiancheria del Vajro, uno dei più antichi edifici industriali di Chieri, risale al XVI secolo, dove si trova anche la collezione “Trame d’Autore”, più di 300 opere di Fiber Art realizzate da artisti di tutto il mondo, un movimento che mette al centro della creazione artistica il filo in tutte le sue declinazioni, purché intrecciato o comunque lavorato al telaio od off-loom.
Non a caso il motto del Museo del Tessile è “tessere il futuro nel presente con le trame del passato”, ovvero preservare la tradizione tessile di ieri, valorizzare le produzioni delle manifatture tuttora attive sul territorio e dare voce anche alle declinazioni artistiche contemporanee.